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DE LA SOUL: Le due facce dello stesso show. Doppia recensione (Recensione Concerto) #DeLaSoul #JazzM

  • Immagine del redattore: Redazione
    Redazione
  • 4 nov 2017
  • Tempo di lettura: 5 min


DE LA SOUL

03 Novembre 2017

JazzMi 2017 Festival

Alcatraz

Milano

UN CONCERTO DALLA DOPPIA INTERPRETAZIONE PER QUESTO RIPORTIAMO DUE RECENSIONI

Voto: 5

Di Luca Trambusti

Era atteso il concerto dei De La Soul, uno dei primi appuntamenti del ricco ed interessante calendario di JazzMi 2017 (vedi qui elenco completo degli eventi) ed infatti la reazione del pubblico è stata degna riempiendo l’Alcatraz (nella sua configurazione “ridotta”). Il nome della band americana rimanda alle origini del rap, alla cosiddetta “Old School”, quando lo stile era assai diverso dai prodotti che si ascoltano oggi, aveva un sapore di novità, siamo a fine anni ’80 (1989 il loro primo fortunato album), ed una prorompente carica.


Un loro concerto è l’occasione per ascoltare uno stile, un suono, un mondo musicale che nel corso degli anni si è evoluto (o involuto?), pur per molti aspetti restando simile a se stesso. L’idea e l’aspettativa dello show era quella di fare un salto nel tempo, di rivivere quel suono, quelle radici che hanno dato il via ad uno stile innovativo e creativo e, come tutte le novità, anticipatore. Purtroppo non è stato così. Certo (ri)trovare la stessa freschezza 30 anni dopo è una “mission impossible”.

Preceduti dai nostrani e ritmici Black Beat Moviment (Leggi qui recensione di un loro concerto), una vera band, alle 21,30 su un palco in cui campeggia solo una consolle (ovviamente) sale prima il Dj per qualche minuto di musica cui fa seguito l’arrivo degli altri due componenti della crew. Ovviamente il pubblico è lì per il ritmo e questo non mancherà di certo per tutta la serata, ora più serrato, ora meno ma sempre faro della serata, su cui muoversi in qualche passo di danza o semplicemente scandendolo.

Pochi minuti di rap ed i tre interrompono l’esibizione per chiedere ai fotografi (e non si riferivano ai soli professionisti) di fermarsi dal fare foto e per almeno un brano di essere parte attiva. E poi pochi telefonini in giro e tutti su le mani a scandire le battute. L’invito al “rito delle mani” sarà una costante della serata, così come lo sarà la suddivisione della platea tra buoni e cattivi, una “battaglia” ripetuta e lunga a cercare quale sezione del pubblico sia più brava a ripetere gli “Oooohh Ooooooh” (ed altri suoni vocali) che i tre fanno con grande frequenza. In un rituale ormai frusto.

I “brani” sono spesso inframmezzati da “siparietti” tra i tre e/o con il pubblico il tutto a creare una (vera e reale empatia con il pubblico). Così tra salti degli artisti e del pubblico, scansione ritmica e scenette di vario genere in un’ora i De La Soul liquidano la pratica Milano deludendo il pubblico. I vocalist salutano e lasciano sul palco il solo Dj che fa qualche accenno musicale, si interrompe, riprende, forse dei problemi tecnici e dopo pochi minuti tra i fischi della platea abbandona la scena anche lui; si accendono le luci e tutto è finito.


Certamente l’esibizione rispecchia i canoni ed i riti del rap (d’altronde i De La Soul sono tra coloro che l’hanno inventato), ci sono tutti gli elementi di “condivisione”, tutti i rituali del genere ma soprattutto ci sono tutti gli stereotipi. Quello che però va in scena è un rito stanco, prevedibile, poco appassionante che solo in alcuni rari momenti è meno stantio. Il più delle volte ci si aggira dalle parti dell’intrattenimento da villaggio turistico, da forzata ricerca di un altrettanto forzato coinvolgimento. E’ tutto già visto, già sentito; è (per paradosso) come vedere gli Statuts Quo sul palco a dimenare le loro folte chiome suonando la chitarra, bello ed originale ai tempi, ma consegnato ormai alla storia.

Certo colpisce la sobrietà dei tre (niente iconografia tipicamente rap, catenoni e sfoggio di più o meno vero oro e limitato uso del simbolico movimento delle mani). La maggior dote sta soprattutto nella ritmicità della crew, nella loro abilità nel “battere il ritmo con le parole”, nello stare sulla battuta, nel saper far diventare i testi e la voce, in una parola il cantato, uno strumento musicale, ma dal punto di vista delle basi, spesso pre registrate perché non sempre il DJ è dietro la consolle, trasformandosi a sua volta in MC, quelle che accompagnavano i loro dischi erano sicuramente più potenti e composite. Evidentemente il tempo passa per tutti anche per i rapper.

Voto 8,0

Di Giorgio Zito

Rivedere a distanza di quasi trent’anni dal loro esordio i De La Soul, una formazione che ha fatto la storia del rap, poteva porre qualche legittimo dubbio: saranno stanchi, invecchiati, privi di nuovi spunti originali? Niente di tutto questo. Tutto mi aspettavo, tranne che di ritrovarli non solo ancora in perfetta forma, ma forse anche più bravi di allora. Appena entrati sul palco, Posdnuos, Trugoy the Dove e il DJ Vincent Mason “Maseo” (già ai controlli del mixer da una decina di minuti per scaldare il pubblico), emanano una energia contagiosa che contamina tutti. Scatenati e coinvolgenti, i tre americani, amici fin dai tempi della scuola, ci mettono pochi minuti, il tempo di due canzoni, per trasformare il concerto in una vera e propria festa.


La band che ha salvato il rap (in un periodo in cui spadroneggiava il gangsta rap, con sguardi truci e mitragliette in copertina, loro se ne uscirono con un album di psychedelic hip hop come 3 Feet High And Rising, promuovendo la “Daisy Age”, e inventando un canone che farà proseliti ovunque, Italia compresa) dimostra di aver ancora intatta quell’attitudine alla gioia, al divertimento, al fare festa che ne hanno fatto uno dei nomi di punta della scena. Niente sguardi truci, niente pose da star del rap, niente insulti ai rivali, ma solo tanta voglia di divertirsi (più volte si scambieranno sorrisi e battute tra loro) e far divertire il pubblico, fotografi compresi, che per un brano vengono invitati a posare le macchine fotografiche e far parte anche loro del party. E soprattutto, amore per la musica, per tutta la musica, senza distinzione di generi.

Uno show, il loro, basato sulla vera essenza del rap: due piatti, due microfoni, niente scenografie, potere alla parola, e all’empatia tra chi sta sopra il palco e chi sta sotto, un’unica comunità. Carismatici, anche grazie al loro essere così understatement, giocano più volte col pubblico, lo dividendolo in fasce d’età, evidenziando così un pubblico davvero transgenerazionale, che va dai sedicenni agli ultra cinquantenni.


Per oltre un’ora passano in rassegna i brani celebri del vecchio repertorio e quelli più recenti dell’ultimo album (i momenti più belli, una versione full disco di A Rollerskating Jam Named “Saturdays”, Stakes is High e la tanto attesa Me, Myself and I), improvvisano balletti, dialogano col pubblico, tutti e tre dotati di una grande capacità comunicativa, e il dj quando scende dalla pedana del mixer è un vero fenomeno di energia positiva. Precisi, tecnicamente perfetti, hanno offerto uno show micidiale, senza sbavature, un concentrato di un’ora di energia rap purissima. E sempre col sorriso sulle labbra. Quella a cui abbiamo assistito all’Alcatraz, per la seconda serata del Jazzmi, è stata una vera e propria lezione di rap, che cosa è, e come lo si fa, che sarebbe stata utile a molti sedicenti rappers italiani.

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